Ondeggiando cadono le foglie
Ondeggiando cadono le foglie dagli alberi come marionette
mosse da mani invisibili in autunno scabro e sopito
dal languido aspetto di cenere, e intanto passano
i giovanili anni si spengono i vivi sentimenti
scrollando in giù le corolle dei fiori nella fredda
notte di mille vite senza vita dei mandorli.
Dove mai porgerò l’insonnia delle mie inquietudini
nel sibilo del vento o sull’orlo del precipizio
delle madide mura del cielo ove chiudendomi
in me stesso come temendo a rivelar tristezza
una luna di rame ammiro nel silenzio ed è già notte.
Irrimediabile è il viaggio dove non c’è più comprensione
né spazio per dedicare versi ai fiordalisi abbandonati;
pure passeranno gli anni e dimenticheremo i disordini.
Nei palmi aperti delle mani si posa il passato
Come il fiocco di neve si stende su di un altro
e altro ancora; e tra l’incerto colore del bugiardo
lume il suolo sacro di tremula vita costruisco,
rammentando tra vento e illusioni chi non riusciva
a sognare nell’angoscia della fredda anima autunnale
che si proiettava lontano in cerca di una dimora.
La musica all’alba della pioggia tra le foglie vado ascoltando
il colore della rugiada sull’erba inargentata ammirando
nei triboli del giardino della mente mia e sento già
intorno il rintocco delle malinconiche campane
il velo oscuro dei fiori celati nella fredda nebbia.
Ancora scabro è il silenzio che si fa parola
negli antri dello spazio come urla di bambini
nei prati d’estate rincorrendo tristi libellule.
E nel dirupo solcato dalle ombre nuova vita
tesso coi fili dell’insonnia per mai più
Languire nell’ordito del passato.
Ed è già sera, ed è già notte.
Marcello Di Gianni


Significazione critica dell’opera “Ondeggiando cadono le foglie” di Marcello Di Gianni
L’opera del Di Gianni è tutta giocata fra la triste e tribolata coscienza della caducità, dimensione autunnale dell’essere, e la perdita  della determinazione attiva soggettuale nella fagocitante dimensione inconscia. La dinamica immaginativa è tutta discensionale, alla quale si oppone una condizione d’insonnia e d’inquietudine, tutte tese alla scabrezza del silenzio che precede la parola, alla spazialità interiore che si fa urlo infantile, lume creativo, sempre bugiardo poi che di verità umana, verità in errore, ma anche suolo sacro: nel rito che ricuce lo strappo fra umanità e divinità, la parola poetica chiama in presenza l’assenza del divino. Per il poeta di lucore decadentista è fuggevole tessitura la parola, a vestire il buio.
Presidente Fondatrice,
Prof.ssa Fulvia Minetti