Il canto del Bul-Bul
È un suono apparentato col lucore
ma d’una levità maggiore ancora;
(come vapore in aria
o sale sciolto in acqua –
eppure non così)
vi levita vi fluttua vi galleggia
per una legge non della natura –
un’armonia dall’ordine incorporeo
che i sensi disorienta che l’avvertono
come se non subissero uno stimolo
connesso dall’esterno con l’ambiente
e credono i sapienti
che sia di luce-prima quintessenza
(per simboli adombrata
da quella che vediamo a malapena)
che a cenno di preludio nell’udito
di sé faccia gocciare qualche stilla
sonorità di fiamma
vi suscita – un afflato – una parola
che – giunta al limitare
di quello stato in cui
per troppa intensità
schianta la percezione dei concetti / in nulla / –
la concretezza in nulla degli oggetti –
in bagliore d’incendio divorato /il tutto/ –
si volge all’ineffabile con supplica
ancora d’esaltarla tanto ch’oltre
il velo di bellezza ardisca – ormai
abbuiata – sospingersi a cercare
incurante del rischio dell’orrore
Joseph Barnato


Critica in semiotica estetica della Poesia “Il canto del Bul-Bul” di Joseph Barnato
Il logos filosofico del Barnato canta del rapporto tra physis e nomos. Il progetto platonico di cosa in sé mira a cancellare il desiderio, svincola le cose dall’esercizio dei saperi, quando invece ogni cosa è desiderio di una pratica: segno in tensione. Le cose in sé sono un costrutto operato a partire dal transfert oggettivante, retroflessione apparente della pratica di parola. Se il progetto platonico mira a esorcizzare l’horror vacui cercando d’impadronirsi della verità del concetto ultrasensibile, eterno e universale, è tuttavia al contrario la sinestesia dei sensi la chiave della sfida del superamento dell’identità, nell’ineffabile che precede la parola, lungo un’ontofilogenesi, che è soglia impersonale dell’infinità immemoriale e bellezza di un essere che, in vita, resta desiderio.
Presidente Fondatrice,
Prof.ssa Fulvia Minetti